All'improvviso, privacy?
Un'installazione al MAXXI di Roma solleva questioni sulla privacy nell'era digitale, evidenziando il costante bisogno di connessione e della condivisione online.
Ex Abrupto - All’improvviso, come tutto quello che conta
A cura di Alessia Pizzi
N.25 - Giugno 2024
Dal 10 aprile al MAXXI di Roma c’è un bagno trasparente.
L’installazione si chiama “Don’t miss a sec” e l’artista è Monica Bonvicini. L’opera - nata nel 2004 - è palesemente provocatoria in un’epoca dove i confini della privacy sono sempre più labili e dove sono nate ansie quali la cosiddetta FOMO, ovvero la fear of missing something, e quindi la necessità di dover stare sempre da qualche parte per non perdere esperienze fondamentali, neppure quando si è al bagno.
Il termine FOMO, come riporta Unobravo, è stato coniato dall’imprenditore e studioso americano Patrick McGinnis in un articolo per la Harvard Business Review. Le vite in vetrina sui social network - specialmente per i più giovani - hanno contribuito a rendere la FOMO anche oggetto di studio, ma di fatto è sempre esistita: in ogni fase della nostra vita c’è qualcosa che sentiamo mancare in base all’età, perché gli altri “ce l’hanno”.
Anche la Pandemia ha avuto il suo ruolo, scatenando la paura di essere esclusi rispetto a tutto quello che c’è fuori dalle mura di casa: nel 2023, secondo Il Sole24Ore, le persone avrebbero viaggiato per “revenge travel” (1 intervistato su 4) o FOMO (2 intervistati su 3).
Esiste anche la JOMO
Ovvero la joy of missing something, di vivere lenti e non iperconnessi.
Perché gli influencer non fanno la cacca?
L’installazione “Don’t miss a sec” sottolinea che neppure mentre siamo al bagno possiamo smettere di guardare quello che accade fuori: ecco perché la vetrata è trasparente, ma solo dall’interno. Le persone fuori non possono vedere chi è al bagno perché le pareti esterne sono fatte di specchi, quindi chi è fuori vede solo se stesso e ha il contesto perfetto per scattarsi un selfie. L’apice dell’egotismo.
Questa opera mi ha colpito fortemente perché qualche anno fa scrissi un articolo proprio sull’evoluzione dello storytelling da Omero agli influencer:
Perché Chiara Ferragni deve mettere in vetrina suo figlio appena nato e non si fotografa quando sta cacando? Perché il bambino è una cosa bella, sottolineo, una cosa bella. La cacca no. Ma del resto anche in Omero sesso e cibo erano tabù, sono solo cambiati i tempi.
Non starò qui a fare la morale: penso che ciascuno sia libero di fare quello che vuole della propria vita: Chiara Ferragni ne ha fatto un business. Volente o nolente. Quello che spesso mi chiedo, mentre scrollo feed dove è diventato quotidiano passare da una live su TikTok in cui una bella ragazza fa un balletto in costume da bagno con l’hashtag #fakebody a quella in cui una coetanea è ricoverata col sondino al naso perché non mangia per #DCA (n.d.a. disturbo del comportamento alimentare), è quanto le persone siano realmente consapevoli della traccia che lasciano negli ambienti sociali online. Ne avevo già parlato in una precedente uscita di questa newsletter soffermandomi sul libro di Vera Gheno dedicato ai principali 15 veleni online e ai rispettivi antidoti: pertinente a questa uscita è il primo, ovvero “online ci comportiamo come se fossimo nella dimensione privata e non in quella pubblica”.
Sono due facce della medaglia: il corpo “finto” e i digiuni, la falsa spontaneità e il controllo celato di ogni singolo dettaglio. Del docufilm The Ferragnez non dimenticherò la scena in cui Chiara parla a Fedez come se fosse un regista: io arrivo, tu fai così e poi mi dici così…
Registi dell’ordinario
La vita è diventata così, per molti. C’è chi è influencer, chi influencer wannabe, e chi ha reso i Social il regno della celebrazione personale. Fidanzamenti, eventi instagrammabili, nascita dei figli, decessi. Ora tutto è online, siamo tutti iperconnessi, e spesso qualcuno si sente in dovere di ringraziare “sulle varie piattaforme” come se stesse emettendo un comunicato stampa. Ogni superficie riflettente è lo specchio di noi stessi, perfetta per un selfie.
Siamo diventati tutti VIP, o almeno, crediamo di esserlo perché intratteniamo una moltitudine di relazioni spesso superficiali. Eppure dobbiamo esserci, dobbiamo fare, dobbiamo dimostrare.
Ah, se le pareti dell’opera di Bonvicini fossero state trasparenti anche per i passanti in strada, sono sicura che nessuno si sarebbe seduto per fare i propri bisogni…
Noi vogliamo guardare la vita degli altri e mostrare della nostra solo ciò che riteniamo socialmente accettabile. TikTok e Instagram sono il frutto più maturo di queste necessità.
Chissà cosa avrebbe scritto Alda Merini a riguardo, ora che le sue frasi tappezzano i social mentre prima erano scritte su muri e fazzoletti. Forse avrebbe detto che si deve essere e basta, amare e basta. Impossibile non pensare alla sua schiettezza e alla sua spontaneità in questi giorni che ne studio la figura per poetessedonne.it e resto colpita dall’immediatezza di pensiero della donna in assoluto più lontana dalle apparenze. Chi ha vissuto per anni in manicomio se ne frega di quello che pensa la gente.
I matti son simpatici, non come i dementi, che sono tutti fuori, nel mondo. I dementi li ho incontrati dopo, quando sono uscita.
Alda Merini
Qualcuno potrebbe pensare che nelle mie frasi c’è molto (e appositamente non scrivo “troppo”) cinismo… beh può darsi. Tuttavia non credo di essere l’unica a pensare che solo l’1% di quegli amici mediatici ci starebbe vicino in un momento di reale dolore, oltre il commento e l’emoji. E allora mi dico, c’è davvero bisogno di quell’emoji? Ci sentiamo davvero così soli?
E soprattutto non credo di essere l’unica che quando vive qualcosa di unico non lo vuole condividere online, ma lo vuole proteggere ferocemente dall’innecessario commento altrui, che sia o meno esplicitato. Da questa necessità di proteggere il privato proviene parte dello scetticismo che vi ho condiviso nelle righe qui sopra e vi ringrazio se siete arrivati fino a qui a leggere.
Se è vero quello che dicono gli influencer quando specificano che sui Social portano solo determinati “contenuti” e non tutta la loro vita, forse anche noi dovremmo capire consapevolmente quale traccia di noi vogliamo lasciare sui Social Network, il nostro graffito online nella grande bolla mediatica.
Meno biscotti
Siamo davvero finiti nella “filter bubble”, ovvero siamo circondati solo dalle notizie che vogliamo sentire? Charlie Beckett, che ho intervistato l’anno scorso per il Report dell’Ordine Nazionale dei Giornalisti, dice di no. Il professore della London School of Economics afferma che prima ascoltavamo un unico telegiornale e leggevamo un giornale solo, mentre oggi siamo più informati grazie alla moltitudine di fonti. Il fenomeno delle news avoidance in parte è la prova di questa affermazione: la gente è stanca di essere bombardata di informazioni (a volte deprimenti, a volte troppo orientate politicamente, ecc), tanto da evitare le notizie. Eppure gli affari degli altri restano ancora un trend topic! :D
Mentre condividiamo la fame di non perdere nulla e non vogliamo essere infastiditi da troppe informazioni, “qualcuno” comunque ha deciso che di informazioni ne stiamo dando comunque troppe, a volte senza neppure saperlo.
L’altro giorno guardando un divano dal cellulare con mio padre gli ho chiesto perché non accettava sti benedetti cookie visto ché non si vedeva bene il modello. E lui mi ha risposto: perché poi mi mandano le pubblicità.
Questo sarà da vedere, perché quest’anno, anche il browser più utilizzato - Chrome - deprecherà i cookie di terze parti proprio per tutelare di più la privacy degli utenti che sono identificati e “inseguiti” dalla pubblicità.
La grattugia del web
La privacy è un tema caldo anche per il boom dell’Intelligenza Artificiale nelle nostre vite: la scansione dei siti (web scraping) per addestrare i modelli di linguaggio senza chiedere le licenze ha generato molti problemi, a partire dalle testate Oltreoceano. Oggi, la stessa piattaforma Substack consente ai propri scrittori di impedire all’AI di scansionare i propri contenuti con una impostazione dedicata.
Recentemente è stata avviata anche un’indagine conoscitiva dal Garante della Privacy sui siti internet pubblici e privati “per verificare l’adozione di idonee misure di sicurezza adeguate ad impedire la raccolta massiva (webscraping) di dati personali a fini di addestramento degli algoritmi di intelligenza artificiale (IA) da parte di soggetti terzi.”
Confidenza, il film: privacy o apparenza?
Chiudiamo questa uscita con i registi, quelli veri: ultimo frutto del sodalizio di Lucchetti con lo scrittore Starnone è “Confidenza”, la storia di un docente che si innamora di una studentessa. La sceneggiatura è affidata a Francesco Piccolo, di cui vi avevo già parlato per il documentario sulla poetessa Patrizia Cavalli.
Il film Confidenza è claustrofobico e ritrae la necessità di vivere secondo le apparenze entrando in paranoia per tutto quello che esclude un comportamento canonico. Pietro (Elio Germano) è un uomo inetto ma di grande successo e Teresa (Federica Rossellini) si contrapporrà per tutta la durata del film alla sua necessità di imbrogliare. Pietro, del resto, è uno che urla di dolore ma non grida: la sua bocca non emette suono, il suo dolore non deve essere sentito. I due si confesseranno un segreto a testa, e questo segreto sarà il simbolo di una storia fatta di paura di rompere la gabbia d’oro creata con tanti sacrifici da Pietro nel corso della sua vita.