All'improvviso, la vita è un horror
Riflessioni sulla vita reale, spesso più spaventosa di un film horror, tra aspettative sociali, malesseri personali e isolamento digitale.
Ex Abrupto - All’improvviso, come tutto quello che conta
A cura di Alessia Pizzi
N.27 - Ottobre 2024
Prologo
Nella mia mente riecheggia da giorni una recente conversazione avuta con l’ortopedico. Mentre ordinavo i nuovi plantari, a seguito di un ritrovato dolore alla gamba destra, gli faccio notare che il giorno del ritiro sarebbe caduto di venerdì 13.
Lui mi risponde “come un film horror, mi pare”. E quando gli dico che amo il genere, lui mi chiede se mi fa paura. La prima risposta è totalmente incontrollata: “Mi fa più paura la vita”. E lui conclude:
“Sì, la vita è decisamente horror”.
Sorprendente complicità con un estraneo nel dire una verità semplice.
La paura è un elemento costante nella nostra vita, spesso nascosta sotto la superficie delle nostre esperienze quotidiane sotto forma di fallimento, solitudine, inadeguatezza rispetto alle aspettative. Tutti proviamo questi timori, ma solo poche persone lo dicono o manifestano, e pochissime li riconoscono dentro di sé: ci accompagnano senza far rumore, condizionando profondamente le nostre scelte e il nostro modo di vedere il mondo. Nella vita, come al cinema quando guardiamo un film horror, possiamo scegliere di girare la testa e guardare da un’altra parte. Ma funziona davvero?
Il contrasto tra l'horror cinematografico e la realtà
Quando Freddy Krueger nel primo Nightmare uccide brutalmente Tina nel suo letto, vediamo la ragazza morire mentre cammina sul soffitto, quasi come se perdesse la gravità nella dimensione del sogno: appena muore cade esangue dal soffitto verso terra: morendo si è svegliata. Guardando queste scene (per me geniali), la mia mente sa che è fantasia, eppure… ho sempre difficoltà a trovare qualcuno che voglia vedere un film dell’orrore.
Se pensate a quello che succede nella vita, che è reale e tangibile, non vi viene più paura?
[Video con contenuti sensibili]
Il vero horror? La cronaca nera
Negli ultimi mesi ho ascoltato il podcast di Pablo Trincia e visto la serie tv romanzata sul caso Elisa Claps. Vi invito a posare la vostra attenzione su questa storia dell’orrore se non avete mai approfondito. Elisa Claps è stata uccisa brutalmente a soli sedici anni da un suo concittadino e il suo corpo è stato ritrovato 17 anni dopo nella chiesa della Santissima Trinità di Potenza. L’assassino ha girato a piede libero per tutti quei lunghi anni, uccidendo ancora, anche all’estero. Si tratta di un caso di cronaca nera pieno di ombre e probabilmente di corruzione, e mi fa molta più paura degli artigli di Freddy. Provocatoriamente Pablo Trincia intitola il podcast “Dove nessuno guarda”, e nella mia testa immagino solo teste che si girano dall’altra parte, proprio come quando non si vogliono guardare le scene di un film dell’orrore.
Horror (vacui) quotidiano tra aspettative e fallimenti
Torniamo all’orrore ordinario.
Bisognerebbe credere che l’estate rigenera perché “si va in vacanza”, “si deve partire”. Io questa estate ho risentito dello stress di tutto l’anno. Di fatto ho passato un mese di ferie a riflettere, a pensare, a cercare di superare un terribile malessere interiore, chiedendomi anche se sarebbe stato meglio partire, visto che il viaggio che avevo programmato è saltato. Eppure, più ci pensavo, più mi chiedevo se un viaggio avrebbe davvero fatto la differenza o peggiorato la mia stanchezza.
Mi guardo attorno, guardo i miei coetanei nella fascia 35-40, e di fatto percepisco un malessere comune spesso legato al “cosa doveva essere e non è stato”. Dovevo sposarmi, fare figli, avere un lavoro sicuro, comprare una casa, e appunto “fare la vacanza”. Siamo eredi di un macigno di aspettative che neppure ai nostri genitori interessano più: non ci chiedono - come faceva la generazione precedente di nonni - te lo sei fatto il fidanzato? - ma anzi, quasi ci invogliano a vivere una vita libera; quella che loro, nella maggior parte dei casi, non hanno avuto. Siamo noi a credere di avere sbagliato qualcosa.
Guardare l’orrore senza voltarsi
Quando si è a riposo, complice un pizzico di horror vacui, si fa i conti con quello che abbiamo e quello che avremmo dovuto avere: nel mio caso una estate serena e spensierata. Nella nostra testa il dover essere è una vocina sottile, di cui spesso non siamo stati consapevoli. Così ho pensato, un po’ per sopravvivere e un po’ perché non mi sembrava giusto aggredirmi così, di acquistare un libro a seguito di una frase letta su Instagram: Wasa sabi - la vita perfettamente imperfetta di Beth Kempton. La frase ispirazionale, che ho trovato sulla pagina della Libreria Holden, invitava a godere del presente senza fatica, facendo un esercizio per 7 giorni: quello di smettere di controllare tutto.
Pensateci bene: controlliamo a lavoro, a casa, controlliamo il peso, il telefono e pure la vacanza! La nostra vita si basa sul controllo del nostro mondo e a volte anche di quello esterno a noi, che non possiamo controllare. Questo genera stanchezza e frustrazione.
Trovo stupefacente quanto l’essere umano possa autoconvincersi: siamo esseri rigidi, perché spaventati. Ma riconosco vari tipi di persone: quelle che accolgono se stesse e gli altri e quelle che a malapena parlano con se stesse, sono quasi schermate. Schermate dal dolore o dalla paura, tutto quello che incontrano le rende vittime in un mondo cattivo, dove avere un confronto paritario dicendo ciò che si pensa è totalmente impossibile. Possono cambiare situazione, ma vivono sempre le stesse emozioni. Io le chiamo persone “acritiche”, naturalmente verso se stesse perché sono gli altri “il problema” che le affligge. La società odierna, incapsulata nei Social Network, sicuramente non aiuta ad arrivare a un confronto costruttivo: “lo smartphone è una protesi del nostro esistere”, ha ragione Monica Bormetti nel libro #egophonia:
Quando siamo su una piattaforma che non vende la sua merce, probabilmente la merce siamo noi
Come merce siamo immagazzinati nel nostro scaffale, vicino ai cibi affini. Tutto ciò che è diverso da noi, è nemico. Non ci resta che autocelebrare quello che siamo e quello in cui crediamo nel nostro profilo.
Cocooning: la grande solitudine del digitale
Cosa combattiamo con lo storytelling romanzato delle nostre vite? Parzialmente anche un grande senso di vuoto e solitudine: se non postiamo non esistiamo. Si chiama “cocooning” il rinchiudersi nel mondo digitale, privandosi di rapporti significativi. Leggo l’approfondimento su L’Internazionale di settembre, in cui viene ricreata la storia della nostra solitudine. Seppur non riconosciuta come una vera e propria “malattia”, la solitudine attira l’attenzione internazionale, specialmente dopo la Pandemia, che da un certo punto di vista sembrerebbe averci “atrofizzati”. La dimensione digitale d’altronde non sprona ad avere anche una vita “reale” se non per decantarla sulle piattaforme: e quindi il nostro modo di stare insieme è cambiato, forse anche peggiorato.
Sia quel che sia
Insomma, che si tratti di un “perché non mi godo l’estate” o di un “perché non ho ancora comprato casa”, i tarli della mente sono svariati e presenti in tutti noi. Quello che possiamo fare è guardarli fissi negli occhi e lasciarli essere, senza troppo accanimento (un po’ come scrive anche Raffaele Morelli nel suo libro “Dimentica”) e senza la necessità di ricevere l’approvazione degli altri (online e offline).
Del resto, pure se c’è chi lo nasconde meglio, abbiamo tutti paura.
Prossimi eventi
Mi trovate il prossimo 22 novembre alla Biblioteca Basaglia di Roma con l’intervento “Voci femminili tra passato e presente” e l’11 dicembre al Search Marketing Connect di Bologna con lo speech “Dalla nicchia al mainstream. La strategia SEO che combatte il Gender Gap”