Ex Abrupto - All’improvviso, come tutto quello che conta
A cura di Alessia Pizzi
N.14 - 11 Marzo 2022
“Non c’è un campo, ci sarà la libertà.”
Era un sabato bello. Di quelli che ti alzi di buon’ora perché sai che uscirai, di quelli che ti fai bella - ché col Covid qui si sta sempre in tuta -, di quelli che fa freddo ma c’è il sole e la voglia di tornare a vivere, se così si può dire, è talmente tanta da sembrare inesauribile.
Era una sabato così, di quelli che aspetti da tanto, soprattutto perché, tra picchi di contagi e contatti coi postivi, di gente negli ultimi mesi ne hai vista davvero poca. Sai che prenderai il treno - no, la macchina no, niente stress -, metterai su una bella playlist di Spotify e leggerai un libro per far trascorrere quei venti minuti sul treno, quelli che ti portano a pranzo fuori nel cuore di Roma e che sai già ti porteranno anche il buonumore. Un sabato qualunque di tre anni fa oggi è un’occasione, quella da cogliere subito.
Quello che non si impara mai è che può sempre succedere qualcosa, chiamiamolo un imprevisto, che ti fa spostare l’attenzione. Nel mio caso è accaduto tutto all’improvviso - come ogni storia di questa newsletter -, mentre scendevo dal treno e camminavo nel sottopassaggio della stazione con la musica alta nelle orecchie e il passo spedito di chi è contento di stare in mezzo alla gente.
Una donna mi guarda, mi parla.
Mentre lo fa appoggia delle grosse buste a terra, strapiene non capisco di cosa, né tantomeno capisco cosa mi stia dicendo visto che la musica monopolizza le mie orecchie. In una frazione di secondo mi abbasso una cuffietta e accenno qualche sillaba interrogativa, forse un “cosa?”. Lei mi risponde, accento dell’Est, chiedendomi di aiutarla a portare le buste, ché da sola non ce la fa.
Veloce e affannata dice che i pullman stanno per partire - quali pullman? E che lei deve portare le medicine. Allora, solo allora, capisco. E la mia domanda nasce spontanea:
Sei ucraina?
Mi risponde di sì, mentre cammina dritta, procede stanca ma decisa verso la meta. Io nel frattempo ho preso una busta, cammino con lei, e chiedo. Chiedo perché mi viene spontaneo farlo:
Hai qualcuno lì?
Ho tre figli piccoli.
Non so che dire, allora le domando con chi stanno; nel frattempo continuiamo a camminare veloci verso l’uscita della stazione. Mi risponde che stanno con i mariti, al plurale, ma non me la sento davvero di indagare oltre. Non c’è modo di farli venire qui? Puoi spostarti? Mi risponde che non li fanno uscire dal Paese e che lei non può uscire in quanto cittadina italiana. Avrò capito bene? Non posso insistere. Saliamo le scale mobili, siamo vicine, faccia a faccia, anzi metà faccia a faccia poiché entrambe coperte dalla mascherina. Finalmente si è fermata. Lei mi guarda e mi parla come se ci conoscessimo, sorelle in questo mondo infame, e mi dice a mezza voce:
Io quando mi squilla il telefono mi faccio la pipì sotto.
Io non so che dire se non frasi di circostanza, davvero non so che dire. Sento moltissimo dolore e l’unica cosa che riesco ad accennare è qualcosa tipo CHE SITUAZIONE DI MERDA. E mi sento veramente scema, e poi mi devo perdonare, perché io non lo so che significa. Non lo so e sono pure fortunata per questa mia ignoranza sia in fatto di guerra che di maternità.
Giusto il tempo di risalire in superficie che la donna - piccola e bruna, con gli occhi di ghiaccio - si riprende anche la mia busta: va di fretta, le chiedo se posso accompagnarla ancora, mi dice che ce la fa. La saluto, riparte spedita. Le nostre strade di dividono. Lei verso il pullman, io verso il ristorante. Quello del mio sabato bello e leggero, dei miei trent’anni, della spensieratezza che tentavo di ritrovare.
Ma cammino scossa, con le emozioni frantumate di chi ha appena sbattuto la faccia per terra mentre volava altissimo e leggero. Cammino, mi viene da piangere. Cammino, guardo il cielo azzurro, gli alberi invernali e spogli, la strada viva, le macchine accese, le persone. Penso a come siano le macerie, penso che qui è tutto normale. Penso che sia davvero ingiusto. Poi penso di scrivere questa storia, perché è giusto fermarsi a pensare anche se non serve a niente, anche se siamo inermi e inutili.
Ripenso alla tempra di questa donna, la conservo. Non è la prima volta che parlo con una donna ucraina. Ne ho conosciute alcune, ho insegnato ai loro figli e figlie quando ero poco più di una studentessa di Lettere. Non so nulla di politica, ma conosco il temperamento di questo popolo. È lo stesso della mamma ucraina alla stazione. Intelligente, determinato, come lo erano i miei studenti e le loro mamme.
Ce la faccio.
Ringrazio il Professor Luca Serianni che l’8 marzo ha aperto la sua lezione sulla poesia femminile presso il teatro Marconi di Roma omaggiando la poetessa ucraina Lina Kostenko, che il 19 marzo di quest’anno compirà 92 anni.
Le ali
È vero, agli alati il suolo non serve.
Non c’è terra, ci sarà la volta celeste.
Non c’è un campo, ci sarà la libertà.
Non c’è una coppia, ci saranno le nubi.
In questo è la verità dell’uccello.
E per l’uomo? Com’è per l’uomo?
Vive sulla terra. Non sa volare.
Ma ha le ali. Ma ha le ali!
E sono ali non di penne e piume,
Ma di verità, di onore, di fede.
Chi le ha come fedeltà in amore.
Chi come eterna aspirazione.
Chi come onestà nel lavoro.
Chi come generosità e premura.
Chi come canti o speranza.
O come poesia, o come sogni.
L’uomo non sa volare…
Ma ha le ali. Ma ha le ali!